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La Basilica di Santo Stefano, ha una lunga storia che parte dall’inizio del IV secolo, dalla sua fondazione, attribuita tradizionalmente a san Petronio, ottavo vescovo di Bologna, che  portò dal suo pellegrinaggio a Gerusalemme la topografia dei Loca Sancta, e li riprodusse, e stabilì così un legame che dura fino ai nostri giorni fra tre luoghi odierni: la chiese di Santo Stefano, quella di San Giovanni in Monte Uliveto, e la piccola piazza che oggi è uno slargo dove via Farini e via Santo Stefano si biforcano. Qui tra l’altro sorgeva la piccola chiesa dedicata a santa Tecla, allieva di san Paolo, considerata protomartire femminile, che riscosse vive devozione in Bologna, proprio sulla scorta della predicazione che ne fece sant’Ambrogio.  La chiesa fu abbattuta nel 1798.

Le origini di questo complesso risalgono all’epoca di Sant’Ambrogio, quando, dopo la libertà di culto concessa da Costantino nel 313 e dopo che rapidamente il cristianesimo era divenuto la religione ufficiale, già i cristiani avevano mostrato di aver bisogno di essere rinsaldati nella fede e nei buoni costumi, e per questo si volse l’attenzione ai protomartiri santi Vitale e Agricola, rispettivamente servo e padrone. Furono martirizzati all’epoca di Diocleziano nel luogo dove era l’arena (dove oggi si trova la chiesa dei Santi Vitale e Agricola in Arena, in via San Vitale) e i loro resti – dato che al tempo le autorità non facevano distinzione fra cristiani e giudei – furono inumati nel cimitero giudeo: le reliquie, riconosciute per i segni ancora evidenti del martirio, furono traslate dal cimitero giudeo-cristiano a est dell’abitato, e opportunamente messe in onore nel 394 alla presenza di Sant’Ambrogio arcivescovo di Milano, di cui Bologna era diocesi suffraganea, e del Vescovo di Bologna, Eustasio.

Come si legano Stefano, Petronio e i nostri tempi?

Noi ci portiamo oggi al tempo in cui san Petronio, che fu l’ottavo vescovo di Bologna tra il 431 ca. e il 450, sistemò questo luogo, a est della Bononia romana, perché fosse memoria vivente della passione di Cristo, facendone fare esperienza ai pellegrini che già da allora ambivano in modo particolare mettere i piedi sui passi di Cristo.  Una tradizione vuole che San Petronio, abbia riportato da Gerusalemme le misure dei santuari, per riprodurli[1], dato che il terreno aveva analoga configurazione[2].  Si ritrovavano così il luogo del martirio di Stefano, la Valle di Giosafat (oggi corrispondente allo slargo in cui via Santo Stefano e via Farini si biforcano) e il Monte degli Ulivi, che richiama l’inizio della passione nell’orazione di Gesù nell’Orto alle sue pendici (sul suo culmine, ricordiamo, avvenne poi l’ascensione di Gesù).

Verso il 415 d.C. erano state recuperate a Gerusalemme, e diffuse, le reliquie di Santo Stefano: ciò motiva ancora di più la scelta di san Petronio di far memoria del protomartire della cristianità. La prima memoria gerosolimitana in Bologna fu dunque dedicata a Santo Stefano (di cui purtroppo non resta come memoria che una grande tela nella chiesa detta del Crocifisso) la cui lapidazione avvenne nella valle di Giosafat, a est di Gerusalemme. Si ebbe una Santa Gerusalemme Bolognese, ben prima che questo appellativo e i relativi luoghi si moltiplicassero in Europa.

Dall’epoca di Petronio il complesso si arricchì di edifici. Nell’887 sappiamo passò nelle mani del Vescovo di Parma, e ritornò in possesso della Chiesa bolognese nel 973, quando fu affidato a Monaci Benedettini, una comunità probabilmente legata alla Riforma Cluniacense, ricca di cultura sotto ogni aspetto. Dopo un periodo di decadenza nel sec.XIV, vennero qui chiamati i Monaci Benedettini Celestini, che ressero il luogo fino a quando, con l’arrivo del governo napoleonico, anch’essi, essendo stato il loro come tutti gli altri ordini monastici soppresso, dovettero andarsene. Seguì un mesto periodo non solo di abbandono, ma di decadenza (con una gestione molto interessata) e ma anche di fantasiosi restauri, che molto tolsero di quanto nei secoli si era qui formato: si perse così anche quasi tutto l’archivio. Si trattò di una serie di operazioni che durò fino al 1930, quando fu edificato il Lapidario dei caduti nelle guerre. Il Card. Nasalli Rocca (che guidò la diocesi di Bologna del 1922 al 1952) volle il ritorno dei Benedettini: tra le diverse famiglie, furono i Benedettini Olivetani ad accettare l’onore e l’onere, e si insediarono qui nel 1941 e vi rimasero fino al 2013, quando lasciarono il monastero e la città. A loro si deve non solo un’accurata conservazione, che sottolinea il patrimonio del passato, ma una offerta qualificata ai contemporanei, in modo che nulla andò perso della grande ricchezza religiosa e culturale.

 

Che cosa aveva visto san Petronio a Gerusalemme?

A Gerusalemme Costantino, poco dopo il 315, aveva fatto costruire la prima Basilica del Santo Sepolcro: questa comprendeva il Calvario, altura di circa 15 metri, una piccola valle (circa 50 m.) e il Sepolcro appunto, detto in greco di anàstasis=resurrezione, che è il luogo della Risurrezione. Rimase poi questo il termine tecnico con cui indicare l’edificio che contiene l’edicola del Sepolcro.

Anche a Bologna il nucleo originario era costituito dalla attuale chiesa del Santo Sepolcro e dal Cortile di Pilato, e dalla chiesa dei santi Vitale e Agricola, che era più piccola dell’attuale e conteneva i due sarcofagi uguali posti a sostegno della mensa dell’altare.

A questo nucleo vennero poi aggiunte: la chiesa del Martyrium, poi detta della Trinità, posta sull’area già occupata dal cimitero giudeocristiano dove avevano avuto la prima sepoltura Vitale e Agricola.

Dopo questa prima sistemazione, i Crociati bolognesi tornando dalla prima crociata furono gli ispiratori di una nuova sistemazione. Infatti, essi avevano visto i Loca Sancta a Gerusalemme, quali erano stati sistemati intorno alla metà del 1000. A Gerusalemme infatti, dopo l’occupazione dei Persiani del 614, si ebbe una ricostruzione nel sec. VII operata da Modesto, che conservò la circolarità dell’anàstasi; nel 1009 ci fu un’altra distruzione, ad opera del Califfo del Cairo: rimase solo l’edicola di cui il Califfo ebbe timore reverenziale. L’imperatore di Costantinopoli Romanos III Argiropulos (1028-1034), avendo vinto il sultano Daher-el-Aziz, ebbe il consenso alla ricostruzione dell’intera rotonda, cui numerosissimi i pellegrini si affrettarono a portare un contributo dall’Occidente. Dopo che un terremoto distrusse i lavori iniziati, dal 1042 al 1048 l’imperatore Costantino Monomaco ricostruì la basilica, con la rotonda per l’Anastasi, il Cortile di Pilato, una chiesa triabsidata sul fondo, un battistero a tre cappelle. La cupola dell’Anastasi, a conferma della sua funzione di unire terra e cielo, aveva un’apertura al centro, un oculus.

I crociati bolognesi al loro rientro portarono la memoria di questa costruzione, e la misero in gioco nelle vicende cittadine con tutto il peso che un simile ritorno poteva avere sul tessuto culturale e sociale della città. Dopo la conquista del 1099, quando terminò la prima crociata, a Gerusalemme furono eseguiti lavori di restauro, che nel 1140 modificarono la struttura della basilica, così l’opera di Costantino Monomaco disparve per sempre, e ne rimane traccia solo a Bologna.

Il Complesso Stefaniano come memoria del Santo Sepolcro, il luogo più santo della Cristianità, fu

luogo sempre di grande attrattiva per i pellegrini che potevano fare qui esperienza dei Loca Sancta, e ciò fu tanto più prezioso quando questi non erano facilmente raggiungibili: ciò fece di Bologna una seconda Gerusalemme, e il pellegrinaggio al nostro Santo Sepolcro poteva essere sostitutivo di quello in Oriente.

Il Complesso ha subito mutamenti nel tempo, pur mantenendo intatta la sostanza e il senso dell’insieme: non è possibile rendere conto di tutti rimaneggiamenti, ma è necessario ricordare che quello che oggi appare l’ingresso per così dire principale, sormontato dalla Mano benedicente di Dio, la Dextera Dei, non lo era affatto in origine.

L’intero complesso allora era fuori dalla città, in luogo boscoso, e vi si accedeva da oriente, attraversando l’area del cimitero giudeo cristiano (corrispondente all’area dell’attuale chiesa della Trinità).

Immaginiamo dunque una visita alla Santa Gerusalemme Bolognese, mettendoci nei panni di un antico pellegrino che vi giungesse per venerare il Santo Sepolcro. Il complesso monastico, che pure presto si aggiunse al nucleo primitivo, non era visitabile dai pellegrini.

Il pellegrino giungeva qui dopo aver percorso nel suo viaggio strade prevalentemente in terra battuta. Dopo aver attraversato l’area cimiteriale, la pavimentazione in pietra era per lui il primo segnale dell’ingresso in un luogo particolare. Poteva riconoscere il cortile lastricato, il “litostrato” citato nel racconto evangelico, che caratterizzava la residenza del governatore Ponzio Pilato: iniziava qui il percorso devoto del pellegrino sui passi di Cristo a Gerusalemme. Alzando poi gli occhi verso sinistra vedeva un gallo che gli richiamava quello che cantò due volte dopo la terza negazione di san Pietro, e gli ricordò le parole di Gesù, profetiche del suo tradimento. Anche questo gallo che qui vediamo poteva essere un punto di preghiera per il pellegrino, che veniva via via immedesimandosi nella Passione. Nel centro di questo spazio campeggia un bacile di fattura longobarda (sec.VIII, posto su un basamento del 1506, usato in origine per raccogliere offerte il Giovedì Santo, nella chiesa del Crocifisso. L’iscrizione, posta sul bordo è di trascrizione incerta: è chiara comunque la menzione di Re Liutprando e di un certo vescovo Barbato. Dal  sec.XIV è detto “catino di Pilato“, dà l’attuale nome al luogo e vuole essere memoria del bacile nel quale Pilato pubblicamente si era lavato le mani: era questo un gesto giuridico volto ad esprimere la sua convinzione che Gesù fosse innocente: poi in lui  prevalse il ricatto del gran sacerdote e dei notabili della chiesa di Gerusalemme, che gli ricordarono che loro riconoscevano come re solo l’imperatore romano, ricattandolo con la minaccia di una denuncia alle autorità romane. Ma la più imponente visione era per il pellegrino ciò che vedeva sulla bellissima parete esterna della chiesa ottagonale del Santo Sepolcro, caratterizzata da figure geometriche ricche di significato simbolico. La lettura simbolica dei disegni realizzati con laterizi di colori diversi (la diversità deriva dalla diversa composizione delle argille, più o meno ferrose) e con piccoli frammenti quadrati di marmo provenienti da costruzioni romane. Questi suggestivi disegni di pietra sono come insegne che comunicano ciò che il pellegrino incontrerà all’interno dell’edificio, e quali luoghi di Gerusalemme vengono qui ricordati.

Cosa vediamo dunque? Una serie di figure geometriche: una stella a 8 punte, una stella a sei punte, una stella a 7 punte, e una scacchiera (che non presentando 64 case non allude al gioco della dama o degli scacchi) seguita da un’altra stella a 7 punte.

La lettura simbolica ci guida a leggere in questa serie di figure l’affermazione che Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, è veramente risorto. L’8 è infatti il numero della resurrezione e del risorto, essendo quello della resurrezione l’ottavo giorno, su cui non tramonta più il sole; il 6 è il numero che nasce dall’intreccio delle maiuscole greche iota e chi, che sono le iniziali delle parole Gesù Cristo in greco Iesus Xristos; il 7 è il numero della natura umana e divina di Gesù, poiché nasce dalla somma del 4 e del 3. Il 4, nelle religioni dell’umanità, indica i quattro elementi costitutivi della creazione (terra, fuoco, aria, acqua), rappresenta il creato e l’umano, mentre il 3, nelle medesime religioni, e in particolare in quelle indoeuropee, è il numero della divinità (pensiamo alla triade capitolina, a quella dell’Induismo, eccetera). Nela religione cristiana, ciò che era preparazione evangelica nelle religioni precristiane, trova la sua verace espressione nella Trinità.

La scacchiera, di cui sottolineiamo che è circondata da una cornice, è simbolo che, nell’alternanza di colori -quadrati, detti “case” chiari e scuri- e del loro numero, esprime le diverse lunghezze della vita delle persone: la cornice è fondamentale, perché sta a simboleggiare che la vita di ognuno di noi si svolge via via in un luogo e in un tempo ben precisi. Le case, con i diversi colori, stanno a simboleggiare che la vita nel suo complesso è un equilibrio tra gli opposti: fame/sazietà, amore/odio, guerra/ pace, malattia/ salute, e così via. Al di sotto di queste figure simboliche vi è una serie di scacchiere, che presentano un numero vario di case, da una sola casa fino a 100 case: questo simboleggia la varietà delle condizioni umane, ed esprime simbolicamente che ogni uomo qualunque sia la lunghezza della sua vita, è invitato a riconoscere Gesù Cristo vero Dio e vero uomo.

Il pellegrino poi entra nell’edificio, cui si accedeva da un unico ingresso centrale, oggi sempre chiuso: i due ingressi laterali oggi utilizzati risalgono alla metà circa del 1800 quando le tre chiese principali furono connesse fra di loro per facilitare il controllo di quanti entravano nell’edificio.

La Basilica del Santo Sepolcro presenta ancora le colonne del vecchio tempio di Iside di epoca romana, cui si affiancano, per reggere il peso, quelle romaniche in laterizio. L’edicola del Santo Sepolcro che abbiamo già descritto è stata realizzata immediatamente dopo la prima crociata quando nel luglio del 1099 Gerusalemme fu liberata e riproduce in forma e misura quanto era contenuto nella chiesa del Santo Sepolcro gerosolimitana. All’interno, l’edicola con due loculi, l’uno per Gesù l’altro per Giuseppe d’Arimatea (non dimentichiamo che Gesù fu posto in tutta fretta nel sepolcro che quegli aveva preparato per sé): qui si vedevano, da una grata, le reliquie di San Petronio, che sono state poi congiunte al capo e si trovano oggi nella Basilica di San Petronio. Il capo del santo patrono fu traslato nella nuova basilica a lui dedicata, per volere di Papa Benedetto XIV (Prospero Lambertini), che accettò la richiesta dei canonici di San Petronio. Nel 2000 anche il resto del corpo del patrono è stato traslato in San Petronio per volere del Card. Giacomo Biffi, che ritenne opportuno “svuotare” questa tomba, perché essa è la “tomba vuota” per eccellenza, testimonianza della risurrezione. Sulle colonne si elevano un matroneo monastico e il tiburio/cupola che presenta dodici lati e tale numero è esplicito riferimento agli apostoli, alle tribù d’Israele e alla Gerusalemme Celeste dell’Apocalisse che ha dodici porte.

Il pellegrino del primo millennio vedeva solo una scala per la quale saliva pochi metri, per giungere a una tavola, la “tavola dell’unzione”, dove il corpo di Cristo venne disteso per una prima unzione per la sepoltura, operazione interrotta per la “Parasceve” dei Giudei (letteralmente “preparazione”): era infatti il tempo in cui i Giudei, dovendo osservare il riposo più assoluto di sabato, preparavano quanto necessario per il sabato stesso.

Furono poi aggiunti bassorilievi, databili ai sec. XII-XIII, che ricordano direttamente la mattina della Pasqua, con le tre donne al sepolcro, le Mirrofore, che portavano gli unguenti per ungere il corpo di Cristo, l’angelo assiso che indica il sudario, e le guardie, raffigurate in abito da crociati: siamo nel pieno della raffigurazione della resurrezione secondo l’iconografia comune all’Oriente e all’Occidente prima che due tradizioni artistiche si dividessero, quando si rappresentava solo ciò che nel Vangelo era scritto, quindi non si sarebbe trovato mai, nella Chiesa d’Oriente, un Cristo in atto di uscire dal sepolcro. L’ambone, del sec. XIII-XIV, porta i simboli degli Evangelisti, secondo la consuetudine di raffigurarli nel luogo da cui la parola di Dio, da loro tramandata nei Vangeli, viene proclamata.

L’aquila, il leone, l’uomo, il bue (qui arricchiti, secondo un uso comune, di ali), ricordano gli “incipit”, gli inizi, rispettivamente del Vangelo di Giovanni, di Marco, di Matteo, di Luca (Giovanni fissò lo sguardo nella divinità come l’aquila -si riteneva- poteva fissare il sole; Marco parte da Giovanni il Battista, che grida nel deserto come il leone; Matteo inizia con la genealogia umana, espressa nell’uomo, di Gesù; Luca inizia con la narrazione del sacrificio di Zaccaria, e gli Ebrei sacrificavano giovenchi).

La cupola, con le dodici vele di nudo laterizio, è particolarmente suggestiva: si fa fatica a immaginarla affrescata. Eppure lo è stata, con una Adorazione dell’Agnello e scene della vita di Cristo, opera forse di un greco o di un discepolo di quelli che avevano lavorato a San Marco a Venezia. Il tutto fu distrutto nel 1804, e fu sostituito da pitture ben meno significative, a loro volta distrutte in questo secolo. E bisogna dire che non tutto il male vien per nuocere, perché così come è ora, la cupola, con i suoi cerchi concentrici di mattoni, mostra con chiarezza l’origine celeste di tutte le cupole, che vogliono essere immagine del cielo in cui si muovono le stelle.

Entrato nell’edificio del Santo Sepolcro, il pellegrino per prima cosa incontra una colonna marmorea, separata dalle altre, fortemente picchiettata da cavità molto piccole, quali si potrebbero realizzare con un colpo di scalpello: una scritta, molto posteriore alla chiesa, recita che quella che si vede rappresenta la colonna della flagellazione, e che recitando preghiere davanti ad essa si lucrano giorni di indulgenza. Poco lontana, protetta da una grata, una fonte che fu a lungo miracolosa, dove si vuole che Petronio avesse versato acque del Giordano: è ricordo della Piscina Probatica[3].

Possiamo adesso osservare che quanto le stelle e le scacchiere della parete esterna dicevano simbolicamente è vero: qui si ricorda un morto, perché evidente che un crocifisso muore, morto che è stato seppellito, ma che per sua virtù è risorto, dimostrando così di essere anche vero Dio.

Dalla Basilica del Santo Sepolcro, accediamo alla adiacente chiesa dedicata ai santi protomartiri Vitale e Agricola, ricordando però che un tempo non erano comunicanti e che era necessario uscire ed entrare dal portale sormontato dalla lapide in cui è raffigurato Cristo fra i due protomartiri. La vicinanza della chiesa dei martiri a quella del Santo Sepolcro insegna che il martire è testimone di Cristo, che imita, e non abiura la propria fede nonostante i tormenti e in questo è di esempio al vero fedele.

La basilica poi dei SS.Vitale e Agricola, strettamente collegata col Sepolcro -da esso vi si accede- e dove un tempo stava il gruppo del Presepio, sottolinea il legame tra Cristo primo martire, testimone fedele, e tutti gli altri, in particolare Stefano protomartire della Cristianità e Vitale e Agricola protomartiri bolognesi.

Estremamente suggestiva nella sua nudità, presenta memorie in stile romanico lombardo: la forma attuale è del sec.XI. Vediamo tre navate e tre absidi, possiamo gustare la forza delle colonne quadrilobate, la scansione solenne degli archi, la luce filtrata dall’alabastro delle monofore absidali.

Vediamo poi una croce, rivestita di lamiera, che la tradizione vuole fosse quella del martirio di Sant’Agricola.

I primi sarcofagi dei martiri reggono oggi la mensa dell’altare; le loro reliquie furono traslate in due nuovi sarcofagi in epoca longobarda, quando i Longobardi non ritenevano opportuno che servo e padrone avessero uguale sarcofago. I nuovi sarcofagi sono assai significativi per la loro decorazione. Quello di Vitale presenta sul fronte due pavoni (simboli delle anime) che si volgono alla croce di Cristo, fonte di vita vera. Quello di Agricola mostra una rappresentazione paradisiaca sulla scorta delle parole di Isaia: “Abiterà il lupo con l’agnello, il leopardo giacerà col capretto.”(XI, 6): vediamo un cervo e un leone che si volgono a una figura divina, con ali e pastorale, in atto di benedire alzando la mano all’uso ebraico: ricorda l’angelo del Canone Romano, immagine di Cristo.

Il fianco poi presenta Sant’Ambrogio benedicente al centro, e Sant’Agricola e Santa Tecla rispettivamente a destra a sinistra, nell’atto, con la mano alzata, dell’acclamatio.

Questa figura ricorda singolarmente la formella custodita al Museo di Santo Stefano e di cui una copia campeggia all’esterno sul portale della Basilica dei Santi Vitale e Agricola, emblema quasi del Complesso stefaniano: vediamo Cristo al centro e i due martiri, in atteggiamento analogo. Si nota in quest’ultima formella che sant’Agricola si sostiene il braccio acclamante con l’altra mano, quasi a significare che ebbe bisogno dell’esempio di Vitale, che fu martirizzato per primo, per dare la sua testimonianza.

Questa basilica non farebbe parte in senso stretto della Santa Gerusalemme, la cui ricostruzione è limitata agli edifici del Sepolcro, al cortile di Pilato, alla Chiesa della Trinità.

Oggi le reliquie dei protomartiri si trovano in un bellissimo reliquiario conservato sotto l’altare maggiore della cripta, cioè di quella chiesetta posta al di sotto del presbiterio della chiesa da cui si entra oggi, la chiesa del Crocifisso (così detta per via del grande crocifisso trionfale di Simone dei Crocifissi, del sec. XIV secolo) che pende dall’alto della scalinata che porta al presbiterio. Nell’ottavo secolo questa chiesa era officiata dai Longobardi che avevano occupato Bologna ed era dedicata a uno dei loro santi preferiti, cioè a San Giovanni Battista.

Il presbiterio della chiesa del Crocifisso è fortemente rialzato proprio per superare la chiesetta dell’abate Martino, trasformato in cripta: risale all’epoca barocca quando ci si applicò ad ingrandire enormemente la chiesa del Crocifisso che, nel progetto, sarebbe arrivata quasi a metà dell’attuale sagrato

Quella che oggi chiamiamo cripta in realtà era una chiesetta accessibile solo dalla clausura, che l’abate Martino (1019) fece costruire per conservarvi le reliquie dei protomartiri[4].

Nella cripta abbiamo cinque navate, divise da colonne tutte diverse sia per il materiale che per la forma dei capitelli: in particolare colpisce la colonna di destra, che appare spezzata e senza capitello. La tradizione la vuole portata da San Petronio per mostrare la statura di Cristo. I pellegrini erano soliti salire sulla semplicissima base, a forma di parallelepipedo, per confrontare la propria statura con quella di Gesù. Ebbene nella ricostruzione tridimensionale dell’Uomo Sindonico, realizzata dallo scultore bolognese Luigi E. Mattei, la statura è proprio quella della colonna, cioè 180 cm.

Forse oggi noi, sparita la chiesetta di Santa Tecla, coperto il corridoio che conduceva da Santo Stefano a San Giovanni in Monte, non percepiamo più con chiarezza l’ampiezza del luogo e la sua rilevanza anche strutturale nel tessuto urbanistico della città.

Ci vengono in aiuto le ritualità che la cura benedettina ha giustamente sottolineato, e che si concentrano soprattutto nella Settimana Santa. Molto probabilmente tali ritualità risalgono, anche se non direttamente a San Petronio: a quel tempo non c’era la chiesetta di Santa Tecla a sottolineare la Valle di Giosafat, e neppure San Giovanni in Monte, e tutta la suggestione era affidata all’analogia dell’andamento corografico.

La prima da citare è la processione delle Palme, che da Santo Stefano conduce a San Giovanni in Monte, il cui nome completo è appunto San Giovanni in Monte Uliveto: la vediamo anche in una miniatura del 1500, quando già c’era Santa Tecla. la seconda cui facciamo riferimento è l’Itinerario sulla Via della croce riproposta per il Millenario Stefaniano, in cui si vede una stazione nell’Orto degli Ulivi, dove ora si trova nel complesso un giardino con sarcofagi, che facilmente si riconosce come alla base del poggio/Monte degli Ulivi.

Una curiosità: il percorso dalla Valle di Giosafat/pendici del Monte degli Ulivi alla sommità, luogo dell’Ascensione, corrisponde oggi al corridoio che da Via Santo Stefano sale a un ingresso laterale nella chiesa di San Giovanni in Monte.

Particolarmente suggestivo è quanto si fa dopo la veglia e la Messa della notte di Pasqua. Il sacerdote, accompagnato da una “pia donna” si reca al Santo Sepolcro: ella vi entra per prima passando a carponi per il pertugio che immette nel loculo. Impersona Maria Maddalena, e ne esce dicendo: “Non est”, non è qui, confermando cioè che il sepolcro è vuoto, perché il Signore è veramente risorto. Entra poi il sacerdote, e ripete la frase, rappresentando Pietro; durante la settimana successiva, fino alla Domenica in Albis, tutti possono ripetere il gesto, e acquistare le connesse indulgenze.

Fernando e Gioia Lanzi

 

[1]La sola fonte storica di tale tradizione è la Vita Sancti Petroni scritta tra il 1164 e il 1180 da un monaco benedettino di Santo Stefano. Più probabilmente il legame tra San Petronio e questo luogo sta proprio per il fatto che il Patrono della città è qui sepolto: l’uso infatti era di seppellire presso le chiese il loro fondatore.

[2]Qui sorgeva un tempio pagano costruito nel I secolo d.C., a  pianta circolare, dedicato ad Iside, il cui architrave si trova ora murato nel fianco della Chiesa del Crocifisso (quasi certamente l’ingresso era disposto a nord, per motivi di viabilità).

[3] La Piscina Probatica o delle pecore, era così detta perché vi venivano lavati gli agnelli prima del sacrificio nel tempio. Ciò conferiva alla piscina un alone di santità, e molti malati vi venivano portati sperando in una guarigione. Il nome deriva dal gr. probatikós, derivato di próbaton=pecora.

[4] Ottenne così anche di poter cessare l’obbligo di cedere parte di esse a personaggi influenti che ne richiedevano frammenti. Il più famoso di loro fu Carlo Magno che nell’801, rientrando da Roma dove era stato incoronato imperatore del Sacro Romano Impero, chiese parte di queste reliquie, che oggi sono in grande onore nella Cappella delle Reliquie della cattedrale di Clérmont Ferrand in Francia, dove Carlo Magno le inviò su richiesta del vescovo della città.